La maggiore scoperta di Melanie Klein nel campo del trattamento psicologico è la questione dell’identificazione proiettiva, per mezzo della quale l’individuo trasferisce nell’altro la sua condotta patologica vedendolo come se fosse l’artefice dei suoi malesseri; Klein presentò una comunicazione nel 1946 alla Società Britannica di Psicanalisi con il titolo “Note sopra alcuni meccanismi schizoidi”, dimostrando come il bambino non voglia solo distruggere la madre, ma impossessarsi d’essa (Dizionario di Psicanalisi, E. Roudinesco e M. Plon, pg. 366). In questo processo l’individuo vede le sue tendenze aggressive e distruttive nell’altro (generalmente il più vicino: genitore, marito o moglie), e passa ad attaccarlo, come se egli fosse il responsabile di tutti i suoi problemi.
Ma esiste un altro fattore molto più sottile e più ampio, all’interno del quale la persona trasferisce nell’altra i desideri che tiene nella sua mente, credendo di ritrovare tutti gli ideali che ha sognato nella vita e, allo stesso tempo, conservando l’idea che l’altro pensi proprio quello che lui immagina di sé. Di conseguenza dobbiamo concludere: 1) che le altre persone non sono quelle che idealizziamo; 2) che gli altri non percepiscono quello che siamo realmente. Neppure gli altri sono quello che immaginiamo e noi non siamo quello che gli altri pensano di noi.
Tanto nella identificazione proiettiva di M. Klein come nel processo di idealizzazione proiettiva (scoperto da me) esiste lo stesso tipo di proiezione (trasferire nell’altro le proprie intenzioni), con la differenza che nel primo caso proiettiamo le cattive intenzioni e nel secondo tutti i nostri ideali più nobili; nella identificazione proiettiva vediamo il prossimo come nemico (che però non è) e nella idealizzazione proiettiva un superamico (che pure non è).
Arriviamo alla conclusione che l’altro non è quello che pensiamo che sia, e neppure noi siamo ciò che gli altri pensano di noi, sia in senso negativo che positivo; se estendiamo tale attitudine all’umanità, possiamo concludere che anch’essa non è quella che crediamo che sia.
· Ho l’impressione che R. S. voglia rimproverarmi perché non ho badato bene al suo telefono.
· Qual è la sua opinione su di lei? Domandai
· Penso che mi stia attaccando perché potrei curare meglio questo aspetto. Rispose il cliente.
· Dunque lei proietta in quella persona il rimprovero che fa a se stessa?
Sto mostrando qui l’attitudine dell’individuo di proiettare nell’altro il rimprovero che fa a se stesso, ciò che Melanie Klein chiamò identificazione proiettiva e che non è solo il risultato della condotta anale-sadica (come lei pensava), ma principalmente di un attacco al proprio essere. D’altro lato, nello stesso tempo che il cliente esercita l’identificazione proiettiva, realizza anche l’idealizzazione proiettiva, perché proietta nell’altro gli ideali esagerati che porta nel suo interiore.
L’idealizzazione proiettiva ha due aspetti: uno è quello di immaginare che il prossimo sia molto più perfetto di quello che realmente è, ciò che mette in evidenza un’enorme ingenuità, e il secondo che il prossimo (perlomeno alcuni) rivela doni incredibili che devono realmente essere ammirati. In qualsiasi modo, la idealizzazione proiettiva fa parte della identificazione proiettiva, ma nel senso di identificare nell’altro, patologicamente, gli ideali più alti.
(Testo estratto dal libro “L’Origine delle Infermità” cap.8, pag. 110-111)